I Ladins e l’Autonomia

Set 26

N contribut che ne deida capir l percors del moviment ladin, che à vadagnà per Fascia zeche da straordenar. Ades ge vel saer “gestir” chi strumenc de auto-goern. Ma se trajon da na man identità, lengaz, storia e cultura, noscia “autonomia speziala” resta zeche va vet e dejutol. Cognon portèr i temes identitères del mond da anchecondì: pianificazion del teritorie, ambient, investimenc, economia, mesuré con metro de noscia istoria e nosc patrimonie cultural.

Nell’interessante dibattito sull’eclissi degli autonomisti, vorrei aggiungere una voce dalla Val di Fassa, dove con qualche originalità si registrano sintomi analoghi.

L’ideale politico autonomista prende forza e consapevolezza quando si tratta di rivendicare un’identità calpestata e conquistare uno spazio vitale di autogoverno; ottenuti il riconoscimento e un adeguato sistema di garanzie, spesso si sgonfia inesorabilmente. Il declino dell’Union Autonomista Ladina inizia nel 2001, con l’introduzione nello Statuto Speciale di un seggio riservato ai ladini del Trentino nel Consiglio Provinciale e la creazione del Comun General de Fascia quale loro ente esponenziale. Grazie a queste conquiste, straordinarie per una minoranza tanto esigua, la coesione attorno alla proposta autonomista cessa di essere il necessario viatico per portare la nostra voce nelle stanze dei bottoni: il “consigliere ladino” e gli organi del Comun General divengono quindi naturalmente oggetto di contesa politica fra i fassani. E il nuovo confronto democratico tutto interno alla minoranza si sposta su altre questioni: economiche, turistiche, infrastrutturali, amministrative… temi sui quali gli storici autonomisti sono meno attrezzati, e che stimolano la proposta di orizzonti alternativi rispetto al centro-sinistra autonomista che aveva ospitato le battaglie a tutela della minoranza.

Il passo verso la morte dell’autocoscienza etnico-politica e l’appiattimento su orizzonti nazional-generalisti è breve, se pensiamo all’autonomia come mero spazio di autodecisione fornito di risorse idonee allo scopo. Ma questa non è che la forma giuridica contingente di quell’anelito vitale di una comunità territoriale, che rivendica la propria diversità e pretende di autodeterminarsi per non rimanere assimilata, per garantirsi la sopravvivenza di un’identità originale contro l’omologazione altrimenti inevitabile. Senza questa aspirazione, l’autonomia perde ogni ragion d’essere e non rimane che un relitto istituzionale col fragile alibi del buongoverno. Se il nostro dialogo democratico rimuove i temi dell’identità, della lingua, della cultura, se obliteriamo una storia millenaria fatta di autoamministrazione e difesa delle prerogative locali contro i poteri centrali, se finiamo con l’appiattirci sulle (non esaltanti) prospettive della politica nazionale – destra o sinistra, sovranisti o europeisti, scontenti e populisti e rottamatori vari… beh, la nostra specialità diviene inutile e vuota.

Discorso che vale forse non soltanto per i fassani, bensì, mutatis mutandis, per l’intera Provincia Autonoma: il dibattito politico trentino, per non dire l’autocoscienza politica dei trentini, appaiono sempre più sovrapponibili a quelli di una qualsiasi provincia del nord Italia. Giusto con qualche denaro in più a disposizione, e la nostra “piccola Roma” un po’ meno lontana dalla periferia che siamo. Per distinguerci in che cosa, rispetto ai veronesi o ai bergamaschi? In molti, giovani soprattutto, avrebbero difficoltà a trovare una risposta.

Se dunque è abbastanza chiaro come e perché gli autonomisti siano divenuti dei fantasmi e quanto sia difficile rianimarli, altrettanto evidente appare l’urgenza di recuperare lo spirito profondo dell’autonomismo e adattarlo alle nuove coordinate, prima che la nostra specialità veramente si riduca a puro privilegio dietro il paravento di una cartolina folkloristica.

E se la rivendicazione di un’originalità ormai riconosciuta e tutelata non può certo stare in cima all’agenda, dobbiamo portare i temi identitari dentro gli argomenti più importanti del dibattito attuale. Dobbiamo imparare a discutere di scelte economiche, di investimenti, di pianificazione territoriale, di modelli organizzativi misurandoli col metro della nostra storia, della nostra cultura, del nostro legame col territorio. Per percorrere strade diverse da quelle nazionali, con la priorità di conservare la nostra unicità – se vogliamo dare significato alla nostra autonomia e alla tutela della minoranza ladina. Il nuovo autonomismo dovrebbe quindi essere trasversale rispetto agli schieramenti e alle tematiche del dialogo democratico: un presidio di opposizione permanente contro ciò che ci omologa e uno stimolo continuo a riscoprire e valorizzare le nostre radici.

L’evoluzione fassana degli ultimi anni non lascerebbe ben sperare in questo senso. Però un segnale positivo c’è: il percorso di rinnovamento intrapreso dall’Union Autonomista Ladina. Dopo aver rischiato di soccombere alla propria vittoria, almeno una parte dello storico partito etnico autonomista prova a riorganizzarsi in una proposta dai contenuti inediti. Se saprà coniugare l’ardore identitario che porta nel DNA in un’alternativa concreta e locale sulle questioni che interessano la quotidianità politico-amministrativa della valle, forse aprirà una via agli autonomisti di domani.

Andrea Rizzi de Poldin
(Il Trentino, 20 setember 2019)

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